Sarà Patti Smith l’ospite
d’onore di Equinozio d’Autunno 2014. La
“sacerdotessa del rock” si esibirà gratuitamente a Scario il data 8 settembre alle
ore 21:30, con la sua band, formata
da Tony Shanahan (basso), Lenny Kaye (chitarra e voce), Jay Dee Daugherty
(batteria) e Jack Petruzzelli (chitarra).
Approfondimento:
Patti Smith, presentata da “ondarock.it”
(fonte articolo www.ondarock .it)
Con la sua voce, rabbiosa, febbrile, dolente, Patti
Smith ha incarnato una delle figure femminili più dirompenti della storia del
rock. I suoi primi lavori, con la mente proiettata nella avanguardie free-form
e nelle improvvisazioni jazz e i piedi ben piantati in un primitivismo
rock'n'roll, hanno gettato le basi per la nascente new wave. E la sua figura, a
metà tra una oscura sacerdotessa e una pasionaria politica, è emersa come una
delle più carismatiche del rock al femminile (e non solo). "Non ho mai
pensato di essere una politica - dice - ma ho sempre voluto comunicare qualcosa.
Sono americana e amo i principi su cui si fonda il mio Paese. Abbiamo la
libertà, ma sento di avere una grande responsabilità per questo verso il resto
del mondo". Non era lei, d'altronde, a cantare "Sono un'artista
americana e non ho colpe"? E sulla sua parabola artistico-politica, ha
recentemente osservato: "Ho avuto il privilegio di crescere in un periodo
di rivoluzione culturale. E la musica ne è stata una componente. Forse non sono
stata altro che una pedina, ma sono contenta, comunque, di aver contribuito a
cambiare qualcosa".
Patti Smith è sempre stata pervasa dallo spirito
dei grandi maudit del rock, da Jim Morrison a Lou Reed, da Janis Joplin a Bob
Dylan. Quasi surreale il primo incontro con quest'ultimo, in camerino, dopo un
concerto all'Other End. "Ci sono poeti da queste parti?", chiede
Dylan. "Non mi piace più la poesia, la poesia fa schifo", lo gela la
Smith. Ma il giorno dopo la copertina del "Village Voice" li ritrae
abbracciati. E da quel giorno Patti trova in Dylan un amico, oltre che un maestro.
Oggi l'esile e ossuta cantautrice americana porta addosso i segni di una vita
turbolenta. I suoi capelli corvini si sono imbiancati e incorniciano un viso
sempre più spigoloso e vivo, ma meno spiritato di un tempo. Come se i due figli
e il dolore per la perdita del marito Fred "Sonic" Smith e del
miglior amico, il fotografo Robert Mapplethorpe, avessero lenito il suo fervore
allucinato. Quel fervore che segnò il suo esordio nelle cantine di New York
dove Patricia Lee Smith, originaria di Chicago ma cresciuta a Pitman (New
Jersey), approdò nel 1967.
Era già ragazza madre e scriveva poesie. Viveva
anche con cinque dollari al giorno, dormendo in metropolitana o sulle scale
esterne degli edifici. Per anni si barcamenò come commessa in un negozio di
libri, critica di una rivista musicale, drammaturga. Quindi riuscì a entrare
nel giro dell'intellighenzia newyorkese, da Andy Warhol a Sam Shepard, da Lou
Reed a Bob Dylan. "Da bambina - racconta - non pensavo di diventare una
rockstar. Sognavo di essere una cantante d'opera. Piangevo ascoltando Maria
Callas e volevo diventare come le. Ma ero troppo magra...". Eppure la
malia del rock l'aveva già presa quando, ragazzina, ebbe la sua prima
eccitazione sessuale vedendo uno show dei Rolling Stones.
Patti Smith & Jerry MalangaLa Grande Mela la
stregherà per sempre, tanto da indurla a tornarvi di recente, dopo la lunga
parentesi di Detroit seguita al ritiro dalle scene nel 1980. "New York mi
affascina. Con me è sempre stata amichevole. Ho dormito nei parchi, nelle strade,
e nessuno mi ha mai fatto del male. Vivere lì è come stare in una grande
comunità". E a New York Patti Smith fa la sua prima apparizione in
pubblico nel 1969 (nei panni di un uomo) nella commedia "Femme
fatale". Poi, scrive testi per i Blue Oyster Cult del suo compagno Allen
Lanier, ha una relazione con Tom Verlaine dei Television di cui si invaghisce
follemente (il rapporto "a tre" con Lanier e Verlaine sarà descritto
nel 1979 nel brano "We Three") e compone le musiche per le proprie
recitazioni libere, una tradizione di New York che in lei trova un'interprete
suggestiva, sostenuta dalle chitarre inquietanti di Lanny Kaye. Ed è nei templi
underground newyorkesi, come Cbgb's e Other End, che Patti Smith spopola
insieme ai futuri compagni di strada: Television, Talking Heads, Ramones,
Blondie. Il suo primo singolo, "Hey Joe/ Piss factory", segna l'anno
zero della new wave americana. Sarà Lou Reed in persona a metterla in contatto
con Clive Davis, presidente dell'Arista, che diventerà la sua etichetta storica.
Agli albori del punk arriva così il primo album
Horses (prodotto da John Cale) che le vale subito un'enorme fama nel circuito
underground americano. E' il disco che porta nella storia del rock un nuovo
linguaggio musicale: una sorta di commistione tra recitazione "free
form" e musica, in cui il testo diventa il punto di partenza, ma mai un
limite; anzi, è spesso il veicolo che permette ai brani di espandersi e
dilatarsi costantemente. Apre "Gloria", cover dei Them di Van Morrison.
Una poesia inedita viene incastonata nell'originale blues. La voce è bella e
potente, ma al massimo ringhia. Il credo cristiano trova nella Smith una
dissacrante interprete: "Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non
per i miei" e "I miei peccati sono solo miei: mi appartengono".
"Redondo Beach" è invece un testo malinconico (si narra il suicidio
di una ragazza), su un ritmo reggae, con il Group che si produce in delicati
coretti. I nove minuti di "Birdland" scoprono le carte. Il testo
viene improvvisato in studio sulla base di un racconto di Peter Reich: il
bambino vede a bordo di una astronave il padre morto da tempo, e piange a lungo
implorando di essere portato con via, ma non gli resta che coricarsi sull'erba.
Canta solo la Smith, la chitarra solista resta rispettosamente da parte.
"Free Money", frenetico boogie sul rapporto tra amore e denaro, è
un'altra cavalcata sfibrante, con Kaye che macina chilometri di rock 'n' roll,
e la Smith che, con il suo canto febbrile e gutturale, non fa altro che
confermarsi una delle migliori interpreti rock di sempre. "Kimberly"
è una ballata tipicamente new wave, condita di ghignetti vari e frasi d'organo,
con echi sparsi dei Velvet Underground. In "Break It Up" c'è e si
sente ululare la chitarra di Tom Verlaine. Da apprezzare, sullo sfondo, il
lavoro di Sohl. "Land" è ulteriormente divisa in tre:
"Horses", un crescendo isterico per voce e sezione ritmica,
"Land Of Thousand Ballads", puro rock sognante, e "La
mer(de)" continuazione sussurrata a tratti. Per altri nove minuti un certo
Johnny, preso in prestito da William Burroughs, viene prima ucciso brutalmente,
poi vive strane avventure. In "Elegie" compare anche Allen Lanier
alla chitarra, che importa un certo clima solenne e melodico.
Disco d'intensità sconvolgente, Horses è il meno
elettrico dei lavori di Smith negli anni 70, ma anche il più convulso,
originale e punk, nonché il più "avanti" per attitudine. Tra gli
altri meriti, avrà anche quello di folgorare sulla strada del rock Michael
Stipe, futuro leader degli Rem: "Avevo delle schifose cuffiette graffianti
dei miei genitori e un cesto di ciliegie davanti a me. Rimasi tutta la notte ad
ascoltarlo. Era come la prima volta che uno si tuffa nell'Oceano e viene
travolto da un'onda. Mi fece a pezzi. Capii da allora che volevo diventare un
cantante e devo molto a Patti anche come performer". Già, perché dal palco
Patti Smith è sempre riuscita a magnetizzare il pubblico. "È capace di
generare più intensità con un solo movimento della mano di quella che la
maggior parte degli artisti rock saprebbero produrre nel corso di un intero
concerto", scrisse Charles Shaar Murray su "New Musical
Express". "Le sue performance sono una battaglia cosmica tra demoni e
angeli", aggiunse John Rockwell sul "New York Times". Un altro
critico le paragonò alle doglie e al parto.
Patti Smith & Jerry MalangaI riferimenti
prediletti della Smith sono i cantici di Allen Ginsberg, la recitazione jazz di
Jack Kerouac, le liriche di Williams Burroughs. Ma il suo vero maestro maudit è
Arthur Rimbaud, "il primo poeta punk". A lui è dedicato il secondo
album, il vibrante Radio Ethiopia, perché l'Etiopia fu la seconda patria di
Rimbaud. Se Horses era il suo disco più ruvido e dirompente, Radio Ethiopia è
forse quello che amalgama al meglio le sue due anime, quella "punk",
feroce e straziata, e quella più cupa e "solenne", che trova
espressione in ballate d'intensità quasi liturgica. Due anime che spesso si
rincorrono e si uniscono anche all'interno di uno stesso brano.
La chitarra di Lanny Kaye e la voce gutturale e lancinante
della Smith marchiano a fuoco "Ask The Angels", un'ode (post?)punk
che lascerà più di un'impronta su moltitudini di future new wave band. Il brano
dimostra anche come, a differenza di molti suoi discepoli, Patti sappia anche
irretire l'ascoltatore con ritornelli contagiosi e immortali. "Redondo
Beach", poi, si butta su sonorità quasi reggae. Quando Smith pigia
sull'acceleratore, però, nascono boogie indiavolati, come "Pumping My
Heart", o sarabande allucinate, dense di umori psichedelici, come la title
track, immersa in un nugolo di distorsioni. Il genere di cantilena free-form
lanciato nell'album d'esordio torna soprattutto nella cupa e struggente
"Ain't It Strange", intonata in quel suo registro dannatamente oscuro
e seducente, o nella più quieta e composta "Distant Fingers". Il
climax "mistico" del disco, comunque, sono i quasi cinque minuti di
"Pissing In A River": a dispetto del titolo, è un'elegia cupa e
solenne, che si snoda su una bella apertura melodica, prima che entrino
minacciosi e i cori e gli assoli di Kaye a sfregiarne i contorni.
La ballata "Because The Night" (scritta
insieme a Bruce Springsteen) è il singolo-trainante di Easter (1978), terzo
centro consecutivo per la cantautrice di Chicago. Nonostante Patti l'abbia in
seguito quasi rinnegata come "commerciale" (secondo i maligni, a
causa del fatto che veniva identificato quasi solo come un brano di
Sprigsteen), è invece una canzone possente e magnetica, che unisce al meglio
vena melodica e fervore rock. Altra ballata commovente del disco è la mesmerica
"Ghost Dance", incentrata sul dramma e sulla "resurrezione"
dei nativi american: "We shall live again", canta la Smith su uno
sfondo sonoro onirico e straniante. La produzione di Jimmy Jovine (in seguito
al fianco dello stesso Springsteen e di Tom Petty) contribuisce a smussare
alcune asprezze del suo sound, rendendolo più "musicale" e
comunicativo, anche se, inevitabilmente, meno selvaggio. Esempio di questo
nuovo corso sono due pezzi di quasi hard-rock classico, come "Till
Victory" e "Space Monkey". Ma il tipico rock'n'roll anfetaminico
della Smith torna a trionfare nella impetuosa cavalcata chitarristica di
"Rock 'n' Roll Nigger". All'interno del disco, spiccano la foto di
una bandiera americana (che desterà polemiche) e l'immagine da bambino di
Arthur Rimbaud, eterno ispiratore dell'arte di Patti. Easter ha il solo torto
di essere stato preceduto da altri due capolavori come Horses e Radio Ethiopia,
giacché possiede intatte le stimmate di un talento fuori dal comune. Se qualche
critico comincerà a storcere il naso, il pubblico, invece, tributerà un enorme
consenso all'album, consacrando definitivamente la Smith come rockstar e non
più (solo) autrice di culto.
Il trionfo viene bissato solo in parte un anno dopo
con Wave, album leggermente inferiore, ma pur sempre forte della psichedelica
"Dancing Barefoot" (ripresa anche dagli U2) e dell'intensa ballata di
"Frederick", dedicata a Fred "Sonic", il marito della
Smith, che morirà non molto tempo dopo. Suggestiva anche la cover al cardiopalmo
di "So You Want To Be (A Rock 'n' Roll Star)" dei Byrds. In fase di
produzione, l'album si avvale di un'altra vecchia volpe degli studios, il
geniale cantautore Todd Rundgren.
Lo stile di Patti Smith ha segnato un solco
profondo nella storia del rock. I suoi ululati da belva in gabbia, i suoi acuti
dirompenti, i suoi lamenti da moribonda in preda agli ultimi spasmi hanno
affondato definitivamente la tradizione del "bel canto", dei voli
epici di una Grace Slick, aprendo la strada a una nuova interpretazione,
ruvidamente "punk" del ruolo di cantante. Ma è proprio questa la sua
forza, la forza di una sciamana selvaggia che riesce a elevare le parole oltre
il linguaggio, grazie al potere visionario della musica. Il suo messaggio, in
realtà, è stato spesso confuso. Ha dichiarato che i suoi tre poeti americani
preferiti erano Jim Carroll, Bernadette Mayer e Mohammed Alì. Ha proclamato
migliori performer di tutti i tempi Mick Jagger, Cristo e Hitler, per la loro
capacità di trascinare le masse. Ha cercato conforto nel Cristianesimo
post-Concilio Vaticano II (Papa Luciani, il suo preferito, appariva all'interno
di Wave) e nel Buddhismo. Ha predicato a lungo il rock come "forma di
comunicazione delle anime". E ha lanciato inni populisti, un po' demagogici,
ma pur sempre efficaci, come "People Have The Power", l'hit-single
estratto dal modesto Dream Of Life, con cui tornò sulle scene nel 1988.
Oggi Patti Smith prega per il Dalai Lama
(all'invasione cinese in Tibet ha dedicato "1959", nel suo penultimo
album Peace And Noise). Dice che la "crocefissione di Bill Clinton"
per il caso Lewinski è stata la crocefissione della sua generazione, quella
della liberazione sessuale. E ha scelto una filosofia positiva: "Da
bambina ero così debole e malata che non pensavo di riuscire a vivere a lungo.
Oggi la mia vita è buona, malgrado i dolori che ho dovuto superare. È stata una
gran vita e sono ancora qui!".
Patti Smith & Jerry MalangaLa sua produzione
degli anni Novanta, tuttavia, non ha più alcun legame con i suoi grandi
capolavori del passato. E se Dream Of Life provava almeno con una ballata come
"Paths That Cross" a risvegliare i fantasmi del passato, i successivi
album sono stati quasi uniformemente all'insegna di un mesto declino, aggravato
dalla pervicacia nel voler ripetere in eterno lo stesso canovaccio. Gone Again
(1996) prova ancora a imbroccare una ballata doc con "My Madrigal",
riuscendovi solo in parte, mentre quando sceglie le corde dell'hard-rock (la
title track o "Summer Cannibals") affoga in una banalità
imbarazzante. Quello che stupisce, semmai, è la rinnovata forma di Patti Smith
come interprete, testimoniata anche da alcune sue brillanti performance dal
vivo. Oltre alla già citata e convincente "1959" (che riesce a
strappare anche una nomination ai Grammy), però, non resta molto da salvare
neanche sul successivo Peace And Noise (1997): il tono elegiaco, accentuato
dalla predilezione per le ballate pianistiche, non è più supportato dalla vena
poetica degli anni d'oro, la scrittura è piatta e scialba, e gli oltre dieci
minuti di "Memento Mori" sono una minaccia quasi più dello stesso
titolo.
Nonostante i flop dei suoi ultimi dischi, Patti Smith
non demorde e torna di prepotenza nel 2000 al grido di Gung Ho. "È una
espressione cinese, che indica proprio la voglia di continuare a combattere con
entusiasmo. È lo spirito dell'album: voglio chiudere questo secolo e affrontare
il nuovo con un'energia positiva". Ma "Ho" è anche un omaggio a
Ho Chi Minh; mentre il ricordo del padre, Grant Smith, è affidato alla foto di
copertina, che lo ritrae soldato durante la Seconda guerra mondiale. "Gung
Ho" viaggia nel solco di un rock classico. E vibra, a tratti, di echi
degli anni d'oro, grazie anche alle chitarre virtuose di Tom Verlaine
(ex-leader dei Television) e Lenny Kaye (colonna storica del Patti Smith
Group). "One Voice" (in memoria di Madre Teresa), la struggente
"China Bird" e "Glitter In Their eyes" (con Michael Stipe
al controcanto) i pezzi più suggestivi di un disco che comunque non resterà
certo tra i lasciti più memorabili della poetessa del rock.
Arrivata alla veneranda età di 56 anni, Patti Smith
pubblica anche la sua prima raccolta di successi - un'antologia di tracce,
inediti, classici del suo repertorio, demo, pezzi live e altre rarità,
ribattezzata Land (1975 - 2002). Un'opera ad ampio respiro, che raccoglie brani
ormai leggendari del repertorio della "sacerdotessa del rock", da
"Gloria" a "Ghost Dance", da "Pissing In A River"
a "Dancing Barefoot", da "Ask The Angels" a "Because
The Night", per approdare fino ai successi più recenti: "People Have
The Power", "1959" e "Glitter In Their Eyes". Chiude
il primo Cd l'inedita cover di "When Doves Cry" di Prince. Per i fan
più casuali, un più succinto compendio della sua carriera ("Outside
Society") uscirà nel 2011.
La pasionaria di Chicago, però, è testarda e non
vuole proprio fare i conti con l'età e con la fine di un'epoca, di cui è stata
indubbia protagonista. Le undici tracce di Trampin' (2004), debutto per la
nuova etichetta Sony/Columbia, scorrono via senza lasciare segni, come
un'innocua selezione di Adult Oriented Rock trasmessa da una qualsiasi stazione
Fm americana. Il fido chitarrista Lenny Kaye e il batterista Jay Dee Daugherty,
più Tony Shanahan al basso e alle tastiere e Oliver Ray sempre alla chitarra,
formano senz'altro una line-up di qualità, cui si aggiunge un accurato lavoro
in sala di registrazione. Musica ben suonata e ben prodotta, dunque. Ma senza
sussulti. I momenti più godibili sono forse quelli in cui la signora Smith
tenta di rinverdire le radici più pure del rock seventies: l'iniziale
"Jubilee", anthem politico in cui la celebrazione del Giubileo
diventa sinonimo di ricordo e protesta al contempo, la ballatona di
"Mother Rose", rievocazione dell'adolescenza al suono di un
nostalgico hammond, il country ombroso di "My Blakean Year", il quasi
hard-rock di "Stride Of The Mind", con un riff ossessivo di
zeppeliniana memoria che s'insinua tra farfisa e armonica. E a voler essere un
po' sentimentali ci si può anche lasciar emozionare dal duetto di Patti con la
figlia Jesse Paris Smith, che l'accompagna al pianoforte nella title track
"Trampin'", un sommesso spiritual reso famoso dalla contralto
americana Marian Anderson.
Ma troppe ballate folk ("Peaceable
Kingdom", "Cartwheels", "Trespasses") rischiano di
appesantire le palpebre dell'ascoltatore, troppe parti spoken sfociano in
logorrea (l'ode accorata di "Gandhi") o affogano nel mare della
retorica (i 12 minuti di "Radio Baghdad"). Ascoltando Trampin',
sembra quasi di vedere un'ex sibilla che ipnotizzava le folle con le sue
profezie in trance voler tentare di riproporre l'esperimento quando la trance è
finita e tutti sono andati via.
Il 12 marzo 2007 Patti Smith è stata annoverata tra
le celebrità della Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel mese successivo ha
pubblicato il nuovo album di cover, dal titolo Twelve, in cui si è
riappropriata di 12 leggendarie canzoni tratte da repertori di mostri sacri
quali Jimi Hendrix, Nirvana, Rolling Stones, Jefferson Airplane, Bob Dylan,
Neil Young e Stevie Wonder. Si tratta comunque di un episodio trascurabile
nella sua discografia, che soffre ormai da diversi anni la mancanza di un nuovo
gioiello.
Nel 2008 Patti Smith torna a far parlare di sé in
veste di "lettrice" dei propri versi. Merito di The Coral Sea,
sensibile requiem postumo per l'amico, Robert Mapplethorpe. Straziante opera di
rimpianto e nostalgia, nel solco della grande poesia americana post-beat
generation, questo lungo poema scritto dalla Smith è diventato nel 2005 una
performance, rappresentata dalla cantautrice americana assieme a Kevin Shields
dei My Bloody Valentine, che ha musicato con chitarra e tastiere la lettura del
testo. Il doppio cd raccoglie queste performance in due edizioni, la prima del
2005 e la seconda l'anno successivo, alla Queen Elizabeth Hall di Londra,
ottenendo cinque stelle dal prestigioso critico del "The Guardian",
che definì le esibizioni dei due "magical".
The Coral Sea descrive gli ultimi giorni di
sofferenza della malattia di Mapplethorpe con visioni, urla, confessioni,
riflessioni escatologiche recitate, rivissute sopra oceani di layer sonori con
i quali vengono raggiunti singolari climax emotivi sui quali la voce sembra
navigare a vela, in simbiosi con venti e marosi.
Nel 2012 Patti Smith viene invitata come ospite a
condividere il palco con i Marlene Kuntz al festival della canzone italiana di
Sanremo.
L'inedita coppia propone "Canzone per un figlio",
che i Marlene presentano in concorso, una toccante "Impressioni di
settembre" (della PFM) e la celebre hit "Because The Night". Ne
risulterà uno dei momenti più emozionanti della storia del festival sanremese.
A giugno dello stesso anno la Smith pubblica Banga,
che segna il ritorno verso una più canonica forma canzone. L'album è un
susseguirsi di omaggi a personaggi del presente e del passato: che si tratti di
persone care a Patti o mai conosciute poco importa, quello che ne esce è sempre
frutto di una scrittura brillante, profonda e illuminata con pochi uguali nella
scena musicale contemporanea. Ogni singola traccia ha una storia da raccontare,
non è mai buttata lì per caso per il gusto di riempire uno spazio, ma si
conquista una ragione d'esistere nell'economia dell'album.
"Amerigo" è dedicata alle peripezie del
Vespucci che scoprì il Nuovo Continente, "Fuji-San" è per la
popolazione giapponese colpita dello tsunami (con annesso disastro nucleare),
"This Is The Girl" è l'accorato requiem per Amy Winehouse, uno dei
simboli pop dei nostri tempi, "Maria" è l'elegantissimo omaggio alla
recentemente scomparsa Schneider di "Ultimo Tango a Parigi",
"Tarkovsky" è dedicata al celebre regista russo, "April
Fool" al connazionale scrittore Gogol, "Nine" è un birthday
present per Johnny Depp, e così via, fino al tributo conclusivo concesso a Neil
Young, materializzato nella riproposizione dell'evergreen "After The Gold
Rush".
Dal punto di vista squisitamente musicale, Banga si
impone come uno degli album più orecchiabili di Patti Smith, forse il più
fruibile in assoluto, senza che la sua accessibilità vada ad inficiare la
qualità del materiale proposto. Un disco che emana forza già dal rotondo ed
efficace trittico iniziale, e che non disdegna puntate verso segmenti spoken
psych-rock ("Tarkovsky" è degna del miglior Jim Morrison) e delizie
di incalzante rock, come nel caso della title track ispirata al cane di Ponzio
Pilato, così come raffigurato in un romanzo di Bulgakov. Neppure nella traccia
più lunga ("Costantine's Dream", ispirata da un quadro di Piero della
Francesca e contenente parti recitate in italiano, si approssima ai dieci
minuti) l'album perde verve, riuscendo a far mantenere sempre altro il livello
di attenzione.
Banga è un gran bel lavoro, da ascoltare, da
leggere, da approfondire, da vivere, da condividere. Senz'altro il suo miglior
disco di canzoni dal 1979 ad oggi, condito da un esaustivo libretto interno e
dalla presenza dei fedelissimi di sempre Lenny Kaye e Tom Verlaine (che mette a
segno un paio di assoli su "April Fool" e "Nine"), a
preservare una volta di più il filo di continuità con il passato.
Patti Smith, anche nel nuovo millennio, si conferma
un personaggio idolatrato verso cui nutrono massimo rispetto persino le
generazioni più giovani. Un monumento, un patrimonio dell'umanità, da amare,
proteggere, salvaguardare. La sacerdotessa del rock non vive di rendita su un
pur glorioso e significativo passato e si dimostra molto più viva e veemente di
tante nuove voci già belle e pronte per il processo di mummificazione.
(fonte ondarock.it)