Tra le prime donne che
hanno impugnato un pennello per far ciò che più l’appassionava fare: dipingere.
Dipingere per vivere, come faceva il padre. Dipingere secondo un filtro creativo
del tutto nuovo per l’epoca in cui viveva. È la figlia di Orazio Gentileschi: Artemisia, l’artista delle donne che ha saputo portare contenuto alla rappresentazione di
figure femminili.
Ed è delle sue protagoniste che vorrei parlare.
Ed è delle sue protagoniste che vorrei parlare.
Prima di farlo, però, è
fondamentale premettere che nel Seicento i corpi femminili comparivano volentieri nelle
composizioni a tema biblico, storico o mitologico ma, molto spesso, avevano una
funzione puramente decorativa ed estetica: gli artisti - uomini- sceglievano determinate vicende per avere il pretesto di inserire donne nude
nella composizione e rendere, così, assolutamente felici i committenti - uomini. E non c’è da stupirsi! La funzione estetica del corpo femminile inteso come
oggetto ornamentale esiste da sempre e, ahimè, persiste ancora oggi, nonostante
le varie battaglie sessuali intraprese da coraggiose donne - ma non solo - stanche di sottostare a questo ammuffito cliché.
E anche la Gentileschi era
stufa. Nei suoi dipinti, saturi di
drammaticità strutturale, sceglie di raccontare la psicologia delle sue donne,
lo spessore emotivo e la loro forza fisica, trascurando quasi del tutto il
compiacimento estetico legato alle loro carni e alla loro sessualità. Per capire questo, osserviamo uno dei
primi dipinti realizzati dalla genitl mano della Genitileschi: “Susanna e i
vecchioni” (1610).
L’opera si lega all’episodio
biblico raccolto nel Libro di Daniele e narra la storia di Susanna, la bella
moglie di Gioacchino, un ricco ebreo che abitava in un palazzo circondato da un
parco dove era solito accogliere i concittadini. Un giorno, ospiti di
Gioacchino furono due signori morbosamente attratti
dalla giovane Susanna, che, intanto, si intratteneva con delle amiche. Ad un
certo punto, la ragazza decise di congedare le sue ospiti per abbattere l’afa
estiva facendo un bagno. I due anziani lo scoprirono e raggiunsero di nascosto
la piscina. Da qui il ricatto: se la giovane non si fosse concessa ai due
vecchi, questi avrebbero riferito a Gioacchino d’averla scoperta tra le braccia
di un altro uomo. Susanna, sebbene spaventata, non cedette al ricatto e
cominciò ad urlare, attirando l’attenzione dei servi e del marito. Fu accusata
di adulterio dai vecchi e, quindi, sottoposta a un lungo processo che sarebbe
terminato con la condannata alla lapidazione se Daniele non fosse intervenuto.
Questi avrebbe scoperto il ricatto interrogando separatamente i due anziani,
che fornirono versioni dei fatti contrastanti. Susanna fu salva (così come la
sua dignità e integrità morale), mentre gli anziani furono condannati a morte.
Molti artisti hanno tradotto
questo episodio biblico in arte. Ma il più delle volte protagonista è il
florido corpo di Susanna. Quasi come dire “Cosa altro avrebbero dovuto fare i
due vecchi?! Cavolo, era bellissima e nuda. Li ha provocati!”. Nel 1555 Tintoretto, per citarne uno, ne fece un paio di versioni, con un’ammiccante Susanna, con tanto di
gioielli, che si specchia in posizione graziosa. E Tintoretto non fu certo
l’unico.
Artemisia è una donna del Seicento, pittrice - novità per
l’epoca - che decide di dare dignità a tutte le eroine dell’antichità - altra
novità. Ecco allora che la sua Susanna,
sebbene nuda, è coperta: a celare le sue morbidi e chiare carni accorre, infatti, la moralità. Immortalata in una posizione innaturale,
il suo corpo è in rigida torsione, le sue braccia sono alte e comunicano
“lasciatemi perdere brutti sporcaccioni!”, mentre il suo sguardo è accigliato,
spazientito e impaurito. La Susanna di Artemisia è bella, carnosa e infastidita
dalla presenza dei due molestatori. A comunicare l’ansia vissuta dalla poverina
è anche la scelta ambientale: l’arioso giardino i cui profumi vanno a stuzzicare i sensi e le passioni, degno dell’opera
del sopraccitato Tintoretto (ma anche di Guido Reni e altri), ha lasciato posto
a uno spazio architettonico angusto, che comunica oppressione: la stessa
che il ricatto genera nella mente di chi lo riceve.
Si tratta di un’opera che
lascia solidarizzare lo spettatore con Susanna e non giustifica di fatto i vecchioni. La
Gentileschi nel 1610 con la sua versione di “Susanna e i vecchioni” è riuscita a capovolgere
l’immaginario femminile.
E questo non era che l’inizio.
E questo non era che l’inizio.
Di qualche anno più tardi sono altre due opere che esprimono in pieno tutta la forza di questa rivoluzione stilistica. Si
tratta di tavole che trattano gli episodi legati alla storia di Giuditta.
Emblematica è soprattutto “Giuditta che decapita Oloferne”(1620). L’episodio
narra la vicenda di un’eroina ebrea che prende le difese del suo popolo,
minacciato da un re Assiro e dal suo generale Oloferne. Giuditta, con la
complicità della sua fantesca, decide di sedurre Oloferne. Gli si presenta ben
vestita asserendo che, per denaro, era pronta a tradire il suo popolo, riferendo
i punti deboli in battaglia (gli israeliani erano storicamente imbattibili sul
campo). I due banchettano per festeggiare l’accordo. La donna lo fa ubriacare
e, quando Oloferne si stende oziante sul letto, lei gli taglia la gola, salvando
il suo popolo. Artemisia non fu l’unica a dipingere l’episodio dell’eroina ebrea.
L’aveva fatto l'immenso Caravaggio
nel 1612, ma anche lo
stesso Orazio, suo padre, aveva tradotto il racconto in pennellate. Ma guardiamo le tre opere per capire
perché la Gentileschi ha qualcosa in più.
Caravaggio sceglie una
composizione di grande impatto, con il puntuale realismo degno della sua arte,
incentrando il tutto sulla sofferenza fisica di Oloferne, messa in straziante evidenza dal nero che avvolge tutto. Guiditta è una docile
fanciulla che trova in Dio (di certo no nella sue esili braccia) la forza per affondare
la lama nelle carni del generale. Orazio Gentileschi, invece, ritrae l’episodio
a decapitazione avvenuta e le due donne si stringono tremanti in un confortevole
abbraccio.
Poi c’è la composizione a
piramide di Artemisia, carica fino alla nausea di potenza fisica e sangue. Giuditta ha la cruenta carica che avrebbe un macellaio intento alla lavorazione della carne di un bue. È mossa da una
determinazione che la rende più forte del guerriero. Tra le due donne c’è
complicità e, mentre una mantiene la vittima, l’altra affonda con decisione la spada
nel collo. Nelle espressioni dei loro visi c'è freddezza e sicurezza. La composizione è quasi filmica, teatrale, vera. Si possono sentire i rumori della colluttazione, il
cigolio del letto, i mugolii di Oloferne, i versi guerrieri di
Giuditta e il sangue che sgocciola sul pavimento.
Dove trovava Artemisia
Gentileschi questa carica? Dove nasceva tutta questa passionalità?
Per alcuni storici, a muovere
le corde dell’odio di Artemisia nei confronti dell’altro sesso, fu la violenza
carnale di cui fu vittima nel 1611 per mano di Agostino Tassi, amico del padre.
Violenza che la giovane pittrice ebbe la fermezza di denunciare, scivolando in
un processo frustrante e umiliante che durò ben sette mesi.
Durante questo processo, la pittrice fu sottoposta a umilianti visite ginecologiche pubbliche e fu torturata con la “Sibilla”, perché il dolore fisico la spingesse ad essere sincera. Questo strumento finì per danneggiare le sue preziosi mani a tal punto che la poverina non riuscì ad impugnare un pennello per molto tempo. Sembra impensabile, ma all’epoca se una donna subiva violenza sessuale, aveva comunque la responsabilità morale d’aver provocato l’uomo. Alla fine Tassi, in seguito ad un lungo braccio di ferro intessuto di menzogne, fu condannato per deflorazione della Gentileschi, che dopo soli due giorni dalla sentenza fu costretta dal padre ad accettare un matrimonio riparatore al fine di recuperare la dignità perduta.
Durante questo processo, la pittrice fu sottoposta a umilianti visite ginecologiche pubbliche e fu torturata con la “Sibilla”, perché il dolore fisico la spingesse ad essere sincera. Questo strumento finì per danneggiare le sue preziosi mani a tal punto che la poverina non riuscì ad impugnare un pennello per molto tempo. Sembra impensabile, ma all’epoca se una donna subiva violenza sessuale, aveva comunque la responsabilità morale d’aver provocato l’uomo. Alla fine Tassi, in seguito ad un lungo braccio di ferro intessuto di menzogne, fu condannato per deflorazione della Gentileschi, che dopo soli due giorni dalla sentenza fu costretta dal padre ad accettare un matrimonio riparatore al fine di recuperare la dignità perduta.
Non c’è da
stupirsi che Artemisia covasse desiderio di rivalsa e l’arte era l’unico modo
per esternare il dolore che le aveva logorato l’anima e distrutto la reputazione.
Ho avuto modo di ammirare un paio di anni fa la mostra di Caravaggio allestita presso le scuderie del quirinale. Il quadro di Giuditta che taglia la testa ad Oloferne è spettacolare. Il generale ritratto nell'istante in cui "non è più vivo e non ancora morto". Non ci sono parole..
RispondiEliminaé vero Dario. è un quadro che impone il silenzio, perchè la sua profondità toglie il fiato. La Gentileschi è unica in questo senso. è immensa come lo sono le sue donne!
RispondiElimina