sabato 23 novembre 2013

Speciale Terremoto dell'Irpinia, 23 novembre 1980- "E chi se lo dimentica il terremoto!"

di Rosanna Gentile
23 novembre 2010: ricorreva l'anniversario del Terremoto. Dovevo scrivere un pezzo per il quotidiano diretto dal grande Tommaso D’Angelo, sinceramente attento a tutto quanto si collega alla storia presente e passata di Salerno. In quell’occasione, me ne andai in giro per le strade della città a chiedere alla gente, soprattutto di mezza  età, cosa ricordasse del Terremoto dell'Irpinia. Ognuno mi raccontò un’esperienza diversa, ma tutte le storie avevano in comune due cose: la paura e il senso di disorientamento. 
Tornata a casa, con il taccuino colmo di storie, ero pronta a sedermi al pc per lavorare al pezzo, quando sentii mia madre dire con tono di voce triste “E chi se lo scorda il terremoto!”. Che stupida, avevo trascorso un intero pomeriggio a sentire le storie di estranei, senza fare mente locale sul fatto che i miei genitori avevano vissuto quel drammatico momento. Erano giovani (rispettivamente avevano 25 e 28 anni), eppure già genitori di due di noi tre figli. Così, mi misi seduta al tavolo della cucina e mia madre mi raccontò quella notte. Vi propongo quella chiacchierata. 

Nella foto: Maria Rosaria Galdi, mia madre, aveva 25 anni quando ci fu il terremoto battezzato “dell’Irpinia”. All'epoca era madre di due figli, uno nato solo 1 mese prima.


 Dove ti trovavi il giorno del terremoto dell’80?
“Mi trovavo a Salerno per pura fatalità. In quegli anni io e papà insegnavamo a Modena. Caso volle che Angelo avesse ottenuto il trasferimento a Salerno. Lasciammo l’Emilia, viaggiando tutta la notte tra il 22 e il 23 novembre, arrivando a Matierno alle 6 del mattino. Con me e papà, i tuoi due fratelli: Tanya aveva 3 anni e Giuseppe era nato solo un mese prima. Non avevamo ancora una casa a Salerno, così ci appoggiammo dai miei genitori, i tuoi nonni. Trascorremmo la domenica tranquilla: quel giorno faceva un caldo quasi estivo. I nonni erano entusiasti di stare con i nipoti e a loro si unirono altri parenti, perché ancora non conoscevano Giuseppe, nato il 20 ottobre di quell’anno. Quando ci fu la scossa tutti erano in cucina, mentre io e il mio bambino eravamo nella stanza da letto: gli stavo cambiando il pannolino. Ricordo che qualche minuto prima commentai con mia madre il fatto che il cielo era rosso. Furono attimi surreali: si avvertì un improvviso e prolungato boato, poi il buio. Nell’oscurità si sentivano oggetti cadere, ante dei mobili sbattere, il letto saltellava e poi il pavimento tremava. Il terremoto fu sia ondulatorio che sussultorio. La scossa durò più di un minuto, ma sembrava un’eternità. Afferrai il neonato dal letto e cercai di guadagnare la porta per raggiungere gli altri, che intanto gridavano e fuggivano. Durante un terremoto la cosa più assurda è che perdi la cognizione dello spazio: non sai cosa fare ne dove andare. Sei completamente disorientato”.

Poi cosa successe?
“Non so come, ma per fortuna ci trovammo tutti in strada: lì c’erano anche i nostri vicini e tanta altra gente spaventata. Dopo aver capito cosa era capitato, cercammo riparo in auto: tuo padre e tuo zio corsero in casa a prendere delle coperte e qualcosa da mangiare. Trascorremmo la notte in macchina, impauriti e disorientati. Matierno non subì danni ingenti come è successo altrove: nessuna casa è crollata e per fortuna nella nostra famiglia non ci furono morti, eppure vivemmo attimi di panico, perché non arrivavano notizie da nessuna parte, non prendeva la radio e linee telefoniche erano interrotte. Eravamo tagliati fuori dal mondo”.

Dove dormiste le notti seguenti?
“Lungo la strada principale di Matierno. La macchina fu la nostra casa per i cinque giorni seguenti. Una conca di plastica che solitamente si usa per lavare i neonati, divenne la culla del piccolo Giuseppe. Dopo la prima scossa ne seguirono altre, meno forti, ma comunque spaventose. Faceva freddo, pioveva e c’era umido, soprattutto di sera, così ci riunivamo tutti insieme attorno ad un focolare improvvisato per acquisire calore e farci coraggio a vicenda. Nei pressi della scuola elementare allestimmo una sorta di accampamento per mangiare e passare il tempo riparandoci dalla pioggia con teloni e materiale di fortuna, tavoli e sedie”.

Quando rientraste in casa?
“Nessuno aveva voglia di rientrare in casa, perché ci sembrava pericoloso. In fondo non sapevamo quali danni il terremoto avesse apportato alla casa. Rientrammo solo cinque giorni dopo il sisma. E sebbene non avevamo elettricità, acqua e gas, fummo sollevati di essere vivi e di non aver perso la casa. Ma la paura era ancora tanta: le scosse di assestamento erano frequenti e rilassarsi era impossibile. Si era sempre pronti a scappare e si dormiva con un solo occhio chiuso”.

Ricordi qualche aneddoto particolare?
“Nei giorni che seguirono la scossa, si respirava un’aria strana. C’era una gran solidarietà tra noi. La notte del 23 persi addirittura i sensi dal panico: mi accasciai tra le braccia di mia madre. Ero preoccupata per i miei due bambini. Non so se fu lo spavento o la preoccupazione, eppure non riuscii più ad allattare Giuseppe: persi il latte. Ma latte in polvere non si trovava, la farmacia era ovviamente chiusa. Così, diluivo con l’acqua tiepida il latte degli aiuti umanitari, che i militari ogni mattina ci portavano con un camion”.

Non avete subito perdite?
“No, noi no. La settimana seguente appresi che ad Acquamela la casa di mio nonno subì gravi danni: crollarono interamente le scale e una parete interna dell’appartamento. Mio nonno rimase lievemente ferito alla gamba e i vigili del fuoco lo calarono dal balcone. A pochi chilometri da noi, a Sant’Angelo di Ogliara, morì un’intera famiglia composta da una coppia e due bambini: loro vivevano in campagna, in una casa rurale che crollò interamente, non lasciando scampo alla famiglia. Se non ricordo male, quelle furono le uniche quattro vittime che si registrarono nelle nostre zone. So che i danni maggiori ci furono a San Gregorio Magno: lì c’era la famiglia della moglie di mio cugino e sapemmo che c’era una situazione disperata. Così, rientrati in casa una settimana dopo il sisma, organizzammo delle macchine per portare alcuni aiuti umanitari (come vestiti e coperte). Andò tuo padre, che al ritorno mi raccontò che a Contursi Bagni, lungo un ciglio della strada, c’erano in fila diverse bare piene, in attesa di identificazione e trasferimento in luoghi più idonei. Ovunque c’erano forze armate, militari, vigili del fuoco. Nella piazza di San Gregorio Magno avevano accantonato tante balle di latte e il peso di quelle superiori schiacciò le balle inferiori: mi raccontò di un fiume di latte scorrere nella piazza. San Gregorio fu profondamente sventrata dal terremoto. Tuo padre lì ha visto una scena che non ha mai dimenticato: una casa completamente sventrata, colma di macerie e, tra cumuli di mobili e pietre, intravide una bambola. Venne a sapere che in quella casa non si salvò nessuno”.

(Per non dimenticare: ripropongo ai lettori del Mastrillo questa intervista/chiacchierata con mia madre -che ringrazio)




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